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Istantanee sulla Russia di oggi

È cambiato lo stile, ma la Russia rimane la Russia.

di Giulietto Chiesa

Metro 1

Viaggio in metropolitana, a Roma come a Mosca. Ma i percorsi sono spesso gli stessi, e non vedi le novità. Questa volta ho scoperto, andando all’università Lomonossov, appunto in metro, che c’è una nuova linea: dieci stazioni, che diventeranno circa 20 per formare una specie di nuovo anello circolare, molto più largo del precedente. Si chiama Petrovskij Park, provvisoriamente. E sono rimasto stupito. Pensavo che l’impressionante sviluppo della metropolitana moscovita fosse fatto con criteri di risparmio, di efficienza, senza badare troppo all’estetica.

Mi sbagliavo. Quello che vedo è una collana di splendori moderni. Ogni fermata è un progetto architettonico e artistico maestoso. Concepito per un pubblico numerosissimo, quindi spazioso. Non ci sono statue, bassorielievi, ceramiche, colonne, capitelli, affreschi come nelle stazioni interne all’anello centrale, ciascuna delle quali è, a suo modo, una galleria d’arte sotterranea, imponente e grondante retorica patria e rivoluzionaria. Ma c’è la stessa idea di fondo (soltanto espressa in termini attuali) di una metropolitana “da ricordare”, che è fatta per i tempi lunghi e lunghissimi, che deve servire al popolo di dopodomani, come serve a quello di oggi. Ma non è una grigia metropolitana per il popolo grigio che deve usarla solo per andare e tornare dal lavoro.

Infatti è luminosa, è ariosa, è monumentale, è divertente e perfino giocosa. Non faccio confronti con quella di Roma. Per carità!. Né con quella di New York o di Londra. Mi limito a esprimere l’impressione che ne ho ricavato e le probabili intenzioni di chi l’ha progettata e costruita. È cambiato lo stile, ma la Russia rimane la Russia. Almeno in questo è proprio così.

Metro 2

Poi torno sulla linea 2 e — altra sorpresa — il primo treno che capita è di colore diverso dagli altri. Giallo invece che azzurrino. Salito per andare verso la stazione Tverskaja, faccio in tempo a guardare meglio: tutto il treno, non solo un vagone, è stato dedicato al “Malij Teatr al fronte”. Il Malij (Piccolo) è uno dei teatri storici più prestigiosi di Mosca e della Russia. Niente pubblicità. Le pareti interne di tutti i vagoni, ciascuno con contenuti diversi, sono “illustrate” con fotografie degli attori di allora, che si recavano a recitare sui fronti di guerra, a confortare i feriti, a portare loro doni e solidarietà. Il teatro funzionò durante tutta la guerra. Ci sono documenti, lettere, maquettes degli spettacoli più importanti. I vagoni sono pieni di citazioni da Cechov, Tolstoj, Dostoevskij, Shakespeare, Eisenstein, Byron, Mayakovskij. Così si celebra, nel 2018, la Grande Guerra Patriottica, come la chiamano loro. Noi, invece, non ricordiamo proprio niente.

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Russiagate visto da Mosca

Leggo a Mosca i media occidentali come se fossi a casa mia, a Roma. Il cittadino russo non ha barriere se vuole sapere. Internet non ha qui più impacci di quanti ne abbia in Europa, o altrove. Il che significa banalmente che, attraverso la Rete, riceve in dosi da cavallo tutti i messaggi e le manipolazioni dei media occidentali. Stando qui si vede con chiarezza assoluta la ridicola mistificazione del Russiagate. L’”american way of life” è imperante. È una propaganda massiccia, sistematica, del modo di vita del “nemico” (per meglio dire del mondo che considera la Russia come un nemico). Le tv, tutte, incluse quelle del “regime” copiano modi, forme, trucchi, scempiaggini di quelle che vedono gli italiani e gli americani. Un po’ meno sboccate e volgari, ma la sostanza è questa. La concorrenza si vede solo nei film e nei serial polizieschi, che sono quasi tutti russi. Per il resto il Commissario Montalbano batte tutti. Propaganda politica parecchia, ma le nostre tv ne fanno molta di più, mascherata da talk-show, dove parlano soltanto i commentatori del regime precedente l’attuale. In compenso lo spettatore russo vede più cose del mondo (seppure filtrate dal regime) di quante ne veda lo spettatore italiano, che il mondo non lo vede più. In questo era così anche durante il sistema sovietico. La fotografia complessiva del mondo era deformata, ma i russi avevano imparato tutti a “leggere tra le righe” ed erano cento volte più informati delll’America e dell’Europa di quanto noi non fossimo (e non siamo) informati sul resto del mondo.

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Il III Congresso dei Politologi

Ho assistito al III Congresso dei Politologi russi. Qui altro che grigia uniformità! La battaglia è in corso, tra occidentalisti e eurasiatici. Ma rimane, seppure molto contrastata, l’idea di fondo che la democratizzazione della Russia dovrebbe seguire le orme della democrazia liberale occidentale. Aleksander Zinoviev si rivolterebbe nella tomba. Infatti pochi lo citano. Non pochi pensano che la democrazia liberale sia ancora viva, da qualche parte, e mi danno l’impressione che una parte dell’intelligencija russa del momento sia pronta a ripetere lo stesso errore che fece nel 1991, quando pensò che la Russia sarebbe diventata capitalista, come l’America, senza rendersi conto che il modello occidentale ultra-neo-liberista era già in crisi e non poteva più costituire un modello per nessuno. Adesso, costoro, sono impegnati a progettare l’imitazione del simulacro di democrazia occidentale e, quando e se ci arrivassero, scoprirebbero di avere fatto nascere un cadavere. Hanno studiato sui libri la divisione dei poteri dello stato di diritto. E ci credono ancora.

Il fatto è che non ci riusciranno, per fortuna nostra e loro.

Ma la cosa interessante è un’altra. Hanno invitato i politologi di ttutto il mondo. Così il loro III Congresso si è trasformato un una rassegna della politologia mondiale attuale. Dove, significativamente, molti degli oratori occidentali sono arrivati a esporre i loro molti dubbi sulla democrazia occidentale, mentre il caleidoscopio mondiale è apparso in tutta la sua ricchezza e simultanea povertà.

Così ho scoperto dal professore di Nuova Delhi che la democrazia indiana è la pià grande del mondo ed è una democrazia “non occidentale”. Dove votano 550 milioni di cittadini per volta, ma dove c’è ancora molto da fare perché le caste continuano ad esserci e, anzi, si rafforzano. Ma ha parlato a lungo, ospite d’onore, il politologo di una delle università di Shanghai, che ha spiegato che la Cina ha una propria politologia, nella “variante cinese”. E c’è stata una serie di difficoltà — nonostante la straordinaria bravura degli interpreti — a tradurre in russo quale fosse questa variante. A me è parso di capire che tanto l’Occidente, quanto la Russia, dovranno cominciare a studiare meglio l’mmenso cambio di paradigma cui la Cina sta costringendo il mondo, volente o nolente essa stessa.

L’unico mio libro tradotto in cinese — lo ricordo a me stesso come esempio — aveva tre autori, tutti e tre con identico rilievo tipografico: il mio nome era seguito da quello dei due traduttori, divenuti per ciò stesso, co-autori dello stesso libro. Ho visto molto chiaro che capirsi sarà un problema.

Ma ho imparato molte cose che non sapevo. Il politologo della Mongolia, un giovane davvero brillante, ha raccontato che, con la caduta dell’Unione Sovietica e lo scioglimento della Facoltà dove si studiava il socialismo scientifico, i primi studenti laureati in politologia apparvero nel 1993: tredici in tutto.

E meriterebbe un racconto a parte il breve corso di storia della politologia brasiliana esposto da una professoressa di Rio de Janeiro. Quando Napoleone invase il Portogallo, nel gennaio del 1808, la famiglia reale si trasferì, armi e bagagli, in Brasile, insieme a 15.000 persone, portando con sé 60.000 volumi della propria biblioteca. Che divenne la prima biblioteca nazionale del Brasile. Per vedere nascere la politologia moderna bisognò aspettare il 1968, quando le università brasiliane furono costruire sul modello interamente americano, attraverso l’influenza di USAID (United States of America for International Development) e sotto l’imperio della Fondazione Ford. Ancora adesso il 70% dei laureati e diplomati superiori escono da istituti privati.

L’Africa non c’era, purtroppo, e sarebbe stato interessante, ma in quei giorni Mosca era una capitale del mondo. Sicuramente uno dei posti più liberi rispetto al “pensiero unico globalista”.

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